La domenica sera è fatta per riflettere
Nell'ultimo periodo mi sono ritrovata spesso a pensare al concetto di comunità.
Un popolo nasce e si evolve intorno alle storie che sono in grado di definire la sua identità. Muoiono gli uomini, ma sopravvivono le loro storie. Sopravvivono le loro gesta esemplari, così che se nessuno ricorderà le loro voci, ricorderà sempre le loro parole. Se nessuno ricorderà i loro occhi, ricorderà la loro visione. Se nessuno ricorderà le loro braccia, ricorderà la loro forza. Sopravvive quel patrimonio di valori inalienabili, in cui ognuno si riconosce. Vale la pena chiedersi che tipo di ricordo stiamo lasciando a chi verrà dopo di noi. Qual è la storia che vogliamo raccontare?
Sento di vivere in un'epoca in cui viene data molta importanza alle storie. Siamo divoratori di serie tv, il genere del true crime appassiona persone di tutte le età e la stagione florida del cinema sembra durerà ancora parecchio. È diventato facile persino trovare dei lettori. Come dimenticarsi dello storico più famoso e amato del momento? Alessandro Barbero sta godendo di una fama straordinaria, per la sua capacità di raccontare la storia.
Cosa ci fa pensare tutto questo? Abbiamo fame di storie, abbiamo fame di identificarci. Forse quello che abbiamo non ci basta più, o abbiamo bisogno di emozioni autentiche, non preconfezionate. Questo perché le storie sono utili per la nostra formazione come persone.
Mia nonna era del 1921, lei la seconda guerra mondiale non l'ha studiata sui libri di scuola. Ci ha raccontato la fame, la solidarietà, la disperazione e la cattiveria del genere umano. Milioni di nonne nel mondo hanno raccontato le stesse storie a milioni di nipoti. Eppure quei nipoti hanno continuato a generare conflitti e atroci guerre esistono ancora oggi. Per questo io non ho mai creduto alla favola che studiare avvenimenti terribili come la guerra o l'Olocausto servisse a non far capitare più queste assurdità. Piuttosto serve a installare in noi una legge.
Perché la maggior parte di noi non uccide? Perché anche se non ci fosse una legge che ce lo impedisce noi comunque non uccideremmo? Perché abbiamo assimilato dentro di noi così tanto l'idea che uccidere è sbagliato che la nostra coscienza ci impedisce di farlo per un fatto morale. Ci è stato insegnato il dolore, la sofferenza e le tracce che questi possono lasciare dentro di noi. Ci è stata insegnata la differenza tra bene e male. La storia, perciò, insegna, ma insegna solo a procurarci degli strumenti per prendere autonomamente delle decisioni. Con gli uomini dell'antichità abbiamo più cose in comune di quelle che crediamo, per questo nei miti, nelle leggende e nelle storie cerchiamo la risposta alla domanda "chi siamo?".
La storia che stiamo scrivendo oggi per gli umani di domani è ricca di contraddizioni. Andiamo su Marte, ma lavoriamo ancora 40 ore settimanali come i nostri nonni. I più attivi nella lotta al cambiamento climatico sono i giovanissimi, gli stessi che comprano su Shein, una delle aziende più inquinanti al mondo. Stiamo creando sempre più posti di lavoro grazie al mondo digitale, ma migliaia di persone continuano a morire in mare cercando una vita dignitosa.
Sento un fermento nell'aria. È come se proprio grazie a queste contraddizioni si scatenerà qualcosa di nuovo. Le idee chiare sono sintomo di quiete, ma il mondo adesso è come se fosse nella sua fase adolescenziale, in cui non c'è spazio per la quiete, ma solo per la tempesta. E io nella tempesta cosa farò? Cercherò riparo o sfiderò i fulmini? E tu cosa farai? Rinuncerai al tetto che ti protegge per creare una strada nuova?
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